Lettera aperta alla persona in lutto

Lettera aperta alla persona in lutto

di Vito Ferri
Psicologo, psicoterapeuta, sociologo
Formatore e supervisore dell’Associazione Progetto Città della vita
Questa lettera, rivolta a chi ha perso una persona cara, è stata pubblicata su Gigi Ghirotti Notizie, 16 (2) 2000 e nel volume Il sollievo. La cura del dolore in tutte le sue dimensioni (a cura del Centro di Ascolto Ghirotti, Franco Angeli Editore, Milano, 2003). Abbiamo più volte constatato che leggendo questa lettera per telefono o consegnandola ai familiari che avevano perso da poco tempo una persona cara, si ha una reazione di sollievo dal cordoglio. Probabilmente questo effetto è dovuto al fatto che i contenuti della lettera educano e guidano la persona a “stare” con le proprie emozioni, rassicurano sul caos interiore e trasmettono il senso stesso del vissuto di cordoglio (che è il dolore della perdita). Chi legge questa lettera prova spesso sollievo nel sapere che il suo grande dolore attuale potrà attenuarsi. Inoltre la persona in lutto apprende con sollievo da questa lettura che c’è qualcosa che accomuna il suo dolore a quello di altre persone che hanno subito una perdita significativa.
L’argomento di cui voglio parlarti è forse l’unica occasione che tutti noi abbiamo di “conoscere” la morte in questa vita.

La perdita di una persona cara, di un amico, di qualcuno o qualcosa per noi affettivamente significativi suscita un vissuto particolare, un misto di emozioni e di sentimenti che chiamiamo “cordoglio” e che si svolgono in un periodo di tempo e in uno status socialmente riconosciuto come “lutto”.

Sicuramente nella tua vita avrai attraversato una o più volte lo stato di lutto, anche se in forma lieve per la non vitale importanza della perdita (es. hai smarrito un oggetto per te significativo; hai subito un furto; la fine della tua infanzia, ecc.). In tutte queste occasioni – ma soprattutto quando si tratta della fine di una relazione di amore o della morte di una persona cara – hai forse avuto la sensazione che qualcosa si rompesse in te, hai sentito un senso di vuoto, hai ricercato l’isolamento per meditare sulla perdita, ma poi hai scoperto l’importanza di condividere con altri la tua sofferenza, altri per te significativi o dai quali ti sentivi ascoltato. Hai provato tristezza, hai pianto, i tuoi bisogni si sono in un primo momento “congelati” (non volevi mangiare o dormire) poi si sono “sregolati”: avevi sempre sonno, hai fatto delle ricche abbuffate, magari di cioccolato, e forse hai buttato giù qualche bicchierino di troppo insieme a una catasta di sigarette, o forse sei scivolato in relazioni affettive avventate o ti sei stordito col sesso, con la musica, con il lavoro.

Ogni cambiamento è sofferenza, il lutto impone un cambiamento violento e indesiderato. Quando la perdita è grave e inattesa, la prima reazione è quella dello shock, dello smarrimento, ti dici “no, non può essere vero, non posso crederci, non voglio crederci”; e già, non “puoi” crederci perché la tua mente rifiuta una rottura improvvisa dello status quo affettivo; non “vuoi” crederci perché “volere” è il primo passo che compiamo ogni volta che ci apprestiamo ad abbandonare uno stato di quiete vitale in cui non riusciamo più a soddisfare i nostri bisogni. Di fronte alla perdita, “voglio crederci” è inaccettabile perché significa riconoscere la perdita, accettare il cambiamento duramente imposto da un incidente o da una malattia, e accettare il dramma esistenziale in cui si è scaraventati con la forza di un’onda gigantesca, mostruosa, severa. Una volta una persona mi descrisse il suo vissuto di cordoglio con l’immagine dell’onda anomala che si abbatte improvvisamente sulla costa con forza devastante.

Ciò che provi in quel primo momento è simile a quello che sente una persona che riceve una diagnosi infausta o una brutta notizia: non può e non vuole crederci, oppure si arrabbia contro il destino o Dio chiedendo perché proprio a lui o a lei. La mente è confusa, cerca di aggrapparsi al ricordo, alla “normalità” di ieri. Si vorrebbero portare indietro le lancette dell’orologio, tornare a un giorno prima, a dieci anni prima. E allo stesso tempo si vorrebbe far correre il tempo per superare la pesantezza dei giorni del dolore, «il tempo guarirà le ferite», si dice, ma il tempo, il tuo tempo, ora sembra fermo, sembra appesantito, ti trattiene nel dolore.

Comunque sia ti prepari a reagire, a lottare: la perdita è una minaccia alla sicurezza, e la forza vitale – “nascostasi” dopo la perdita – tende a riaffiorare. Per quanto piccola, la perdita è sempre un pericolo e noi siamo naturalmente attrezzati per reagire alle minacce, mobilitiamo risorse e difese. La reazione deve però avvenire da subito, dobbiamo imboccare presto la via del cambiamento (è questa la meta del cordoglio). Dobbiamo fuggire dalle sirene che cercano di incantarci facendoci arenare sul lido della disperazione, facendoci inseguire un’ombra, bloccandoci nelle melmose acque dell’assurdo e dell’insensato.

Dunque, lo shock, per quanto drammatico ed emotivamente doloroso è solo la prima reazione, come il dolore acuto quando sbatti il gomito, come un lampo accecante, ma il tuono sta per arrivare. Il tuono rappresenta metaforicamente le emozioni del momento e i sentimenti più duraturi: la tristezza, la rabbia, i sensi di colpa, la nostalgia, la scoperta del peso dell’assenza, il dolore per la ferita che sanguina, lo sconvolgimento di progetti legati alla persona perduta, la solitudine, i cambiamenti che si susseguono, l’assedio di problemi economici e burocratici, ecc. Allora ti sembra di impazzire, di perdere il senno, vuoi morire, ti senti pesantemente assediato da tanti “mai più”, “fu”, “non c’è più”, “nulla sarà più come allora”, “non potrò più ascoltare la sua voce, toccare la sua pelle, sentire il suo odore”, “non potrò più fargli una domanda e ricevere le sue risposte”, “non potrò più fare colazione con lui o lei e commentare le notizie del telegiornale”. La negazione e l’assenza dilagano, sperimenti tutto il peso della irreversibilità. La morte è un’irruzione violenta, impudica, acefala, di negatività, di assenza assoluta e purissima. È vero, abbiamo bisogno di assenza, di vuoti, di “vacanze”, ma bilanciati dalla presenza, dal senso dell’esserci; così abbiamo bisogno di “diluire” con la presenza la dose troppo pura e densa di assenza. Le emozioni che accompagnano la perdita non sono casuali, esse segnalano il bisogno della “presenza”: un contatto più intenso con te stesso, poi con le persone a te più care e infine con altri a cui confidare alcuni sentimenti o pensieri che per vari motivi non vuoi o non puoi condividere con le persone care.

Dopo lo shock ti aggrappi al passato, pensi a parole di affetto o di riconciliazione che avresti voluto rivolgere alla persona che non c’è più, e allora la cerchi nei ricordi, nella sua stanza, tra le coperte non più calde come prima, tra le foto, nei tuoi sogni. Già, i sogni, ad essi non si sfugge, sono i messaggeri dello svolgersi del lutto, cioè uno sforzo che la mente fa per riportarsi in quota, una nuova quota, quella dell’accettazione, di un nuovo modo di essere. Col tempo, nei sogni non comparirà più la persona morta come minacciante, o che risuscita, illudendoti al risveglio. Alla fine del lutto i sogni in cui compare la persona defunta sono più rari o comunque ti sembrano più sereni e carichi di significati “esistenzialmente nutrienti”. Sai, in altre culture questa fase rappresenta il passaggio del morto da spirito minaccioso ad antenato benefico. Ecco perché esistono ancora molti riti che accompagnano tutto il processo del lutto dall’inizio alla fine. Se conosci persone che vivono o hanno vissuto in piccoli centri urbani a dimensione comunitaria, chiedi quali rituali mettono in atto, scoprirai che un elemento comune a tutti i riti è la condivisione, la partecipazione. La cena rituale dopo il funerale è forse l’immagine più bella di noi uomini che reagiamo tutti insieme ad una perdita che, nei piccoli centri abitati, è una perdita subita anche dall’intera comunità.

A volte si inizia a pensare alla perdita o alla morte della persona cara prima che questa avvenga, non c’è ancora cordoglio, ma in qualche modo la nostra mente e il nostro essere si prepara alla perdita. Il significato di questa reazione nasce dalla percezione di una minaccia allo status quo dell’individuo, alla quotidianità, o alla coesione della famiglia. Chissà quante volte nella tua vita hai cercato di anticipare mentalmente un evento per prepararti ad affrontarlo! Si anticipano le mosse degli avversari al gioco, dei nemici in battaglia, dei rivali in amore, del pedone che sta per attraversare mentre noi transitiamo in auto. Anticipiamo non solo a livello mentale, razionale o “strategico”, ma anche emotivo. Sai, l’emozione, se intensa, può bloccarci, di qui la “sana” reazione di negazione durante lo shock che ci permette di organizzarci senza bloccarci, senza essere schiacciati dall’angoscia e dal caos emotivo. L’anticipazione dell’evento è spesse volte una simulazione mentale che tutti abbiamo sperimentato nella vita prima di un evento importante: la prima uscita con la persona di cui siamo innamorati, il nostro matrimonio, gli esami, il primo discorso di fronte a una platea numerosa e interessata a noi. Poi ci sono esperienze ancora più forti, ad esempio prepararsi ad un difficile intervento chirurgico, le cui emozioni iniziamo a “pagarle” in anticipo (come accade per gli anticipi di certi versamenti in modo che il saldo sia poi più lieve). Quindi non stupirti se noterai in te reazioni di ansia, tristezza, autoaccusa, sfinimento, rabbia già prima della morte della persona cara. La tensione può essere tanto pressante da esigere una scarica, spesso questa avviene attraverso il pianto, ma non di rado puoi scoppiare in una sonora risata per questioni futili. Lo humor è una risorsa importante per attutire il duro colpo della realtà (pre)luttuosa.

Il lavoro del lutto, se non è ostacolato (rimuovendo il dolore, non manifestando le emozioni, fuggendo la realtà, rifugiandosi in mille attività) ti condurrà ad un nuovo status, a una nuova configurazione dell’essere: nel tuo universo brillerà una nuova costellazione, la ferita si sarà rimarginata pur lasciando una cicatrice evidente; la nostalgia sarà lieve come la brezza e il ricordo una calda carezza; stabilirai nuove relazioni; la famiglia si sarà riorganizzata distribuendo ad altri componenti le funzioni svolte dal defunto. Il rimpianto prenderà il posto del rimorso e del senso di colpa. La “compressione vitale” esploderà in nuove realizzazioni creative (sai che è frequente la gravidanza in prossimità di eventi luttuosi?). Tornerai a vedere brillare il sole.

Non voglio darti delle “pillole” su cosa fare quando si è in lutto o per aiutare persone in lutto. I libri ne sono gravidi e puoi attingervi a piene mani: abbiamo bisogno di regolette per poi fare quello che la nostra coscienza e il buon senso ci indicano. Quello che posso darti è invece una possibile direzione da seguire, segui il mio dito, ma poi staccati da esso e osserva ciò che voglio indicarti: le tue esperienze di perdita (a qualsiasi livello) a cui hai reagito positivamente. Ti indico tutti i tunnel della tua vita che hai imboccato e superato, tutte le volte che sei caduto e ti sei rialzato, tutte le volte che le tue lacrime hanno cessato di rigarti il viso e il fazzoletto portato agli occhi è rimasto di volta in volta sempre più asciutto. Ricorda come hai reagito, chiediti cosa volevi in quei momenti, o cosa non volevi, quali sono state le scelte più importanti e lenitive fatte da te o da altri per te. Ricorda cosa ti faceva bene, quali parole o gesti hai gradito, quali hai rifiutato, quanto è durata la sofferenza e quali conseguenze essa ha avuto. Quando puoi, parlane con chi ti ispira fiducia e ti accoglie con calore, condividi le esperienze e fanne tesoro, scoprirai che il lutto non è un nemico da combattere, ma un alleato, non lo squarcio della ferita, ma la crosticina che cadrà quando la ferita si sarà rimarginata. Scopri in te il nettare da trasformare in miele per addolcire la tua sofferenza e quella di chi incontrerai sulla tua via per impegno morale e per amore.

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